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Lavoro flessibile e capitale simbolico - Ragioni Pratiche

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Lavoro flessibile e capitale simbolico

venerdì 24 luglio 2015,  

[ pubblicato da Fabio Andreazza ]

da: Federico Chicchi, Lavoro e capitale simbolico. Una ricerca empirica sul lavoro operaio nella società post-fordista, Milano, Franco Angeli, 2003, pp. 46-71.

il lavoro come legame tra individuo e società

La nascita dell’era moderna è coincisa con l’affermarsi della centralità sociale ed antropologica del lavoro. Questa forma “speciale” della più generale attività umana ha, infatti, progressivamente acquisito nella definizione delle singole esperienze personali, un ruolo sempre più rilevante. Da un punto di vista economico, con lo sviluppo della società capitalistica, è la crescente razionalizzazione dei processi di produzione e il diffondersi del modello industriale di produzione che caratterizzano le forme sociali del lavoro, forme ambivalenti che permettono da un lato di aumentare progressivamente ed enormemente la capacità di produzione della ricchezza ma dall’altro generano nuove e rilevanti questioni sociali, come la pauperizzazione crescente delle classi subalterne al capitale e l’intensificarsi delle forme d’alienazione del lavoro.
Sarebbe, però, sociologicamente inaccettabile interpretare la storia e la natura del lavoro (modernamente inteso) unicamente dal punto di vista della sua capacità di creare e moltiplicare la ricchezza sociale disponibile. Il lavoro, infatti, non è riducibile alla sua funzione trasformativa e valorizzante, ma rappresenta anche quell’attività umana che mette in relazione gli individui per organizzare la necessaria riproduzione materiale della vita sociale e per questo uno spazio centrale di fondazione delle appartenenze e delle gerarchie sociali. Il lavoro, in quanto attività di cooperazione tra diversi individui, svolge, infatti, anche la funzione di collegare l’attività finalizzata dei singoli a quella dei gruppi e delle comunità che li comprendono; il lavoro evocando appartenenze sociali intermedie tra l’individuo e lo Stato, tra la sfera privata dell’azione e quella pubblica (Cella, 1997) contribuisce a fondare e modellare i legami tra i diversi attori sociali e tra questi e le istituzioni che sono preposte a governarne i rapporti. Il lavoro permette dunque, di unire, senza assoggettarla, l’esperienza individuale alla più ampia dimensione sociale, attribuendo a chi lo esercita riconoscimento e senso d’utilità sociale. Per dirla con le parole di Yves Barel (1990) il lavoro ha assunto nella società industriale il ruolo di grand intégrateur dei rapporti sociali.
L’importanza del lavoro s’inscrive quindi indelebilmente nel corpo della modernità anche perché in quest’epoca attraverso di esso, si afferma il principio sociale del poter essere altrimenti. Il senso ultimo della rivoluzione moderna risiede, infatti, nel rifiuto della “fissità” della posizione naturale e sociale intesa come realtà inviolabile ed intoccabile e nella conseguente e necessaria ricerca dell’autonomia come tensione dialettica tra coscienza privata e sfera pubblica dell’esistenza. Il lavoro è in questo senso, anche uno “spazio politico” in cui tale tensione acquista senso e diventa progettabile dal basso. Il sociale nel moderno, allora, assume il “fare” e il “progetto del fare” per essere altrimenti, come sua attività poietica fondante, attività che definisce i confini del reale come determinazione dinamica di ciò che è possibile o impossibile. In altre parole con la modernità, il lavoro, la sua intrinseca potenzialità trasformativa, diventa l’attività che condiziona gli ordini strutturali e simbolici del reale ora “disincantato” .

È all’interno e per mezzo dell’intreccio del possibile e dell’impossibile che la società e ogni società costituisce il “reale” e il suo “reale”. La realtà non è soltanto, come si ripete dopo Diltey, “quel che resiste”; essa è altrettanto, e indissociabilmente, quel che può essere trasformato, quel che permette il fare (e il teuchein) come far essere l’altro da quel che è o far essere altrimenti ciò che è così. La realtà è ciò al cui interno vi è il fattibile e il non fattibile (Castoriadis, 1995, p. 129).

Se il lavoro, e le sue tecniche operative sono, nella modernità, il mezzo sociale del fare e del trasformare, diviene immediatamente evidente la sostanziale rilevanza politica dell’ambito sociale che esso racchiude. Le modalità e la qualità della partecipazione di una persona all’attività lavorativa determinano, infatti, la possibilità o meno, per quest’ultima, di accedere alle risorse materiali e simboliche utili alla sua validazione sociale: il lavoro dà facoltà di entrare nel circolo del riconoscimento sociale dove l’attività individuale, attraverso la contribuzione alla produzione del benessere collettivo, diviene attività pubblicamente riconosciuta come “utile”. Il lavoro rappresenta, dunque, il principale canale di fondazione del senso e del valore della propria esistenza sociale e, per questo, uno dei principali catalizzatori individuali e collettivi di capitale simbolico (Cfr. Chicchi, 2002). Le modalità e il grado di riconoscimento ottenibile attraverso tale contribuzione non sono però automatici e monolitici, essi sono regolati e definiti nelle loro forme simboliche dai rapporti di potere che esistono tra i diversi attori che cooperano e/o confliggono all’interno del mondo produttivo, e quindi dalla loro possibilità di accedere (o meno) alla definizione degli stessi criteri attraverso cui il riconoscimento viene “distribuito” ed “attivato”. Nel proseguo dell’analisi cercheremo allora di comprendere come alla luce delle recenti trasformazioni produttive in senso post-fordista il lavoro si “riposizioni” all’interno della società contemporanea.