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Scienza e libido nel campo accademico
Riflessioni intorno allo “sguardo androcentrico” di Pierre Bourdieu
domenica 23 marzo 2014,
Mirella Giannini
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Pubblichiamo l’anteprima di un saggio di Mirella Giannini in uscita nel volume Pierre Bourdieu, Il mondo dell’uomo, i campi del sapere, curato da Emanuela Susca per Orthotes Editrice. Qui il par. 3: La libido maschile e l’ombra della femina academica. Per leggere la versione completa di note occorre scaricare il pdf in fondo al post.
Quando Bourdieu descrive il campo universitario come omologo al campo del potere, con l’evidente opposizione tra la parte dominante e la parte dominata, e quando, con il metodo della prosopografia, con indici che rappresentano più o meno direttamente il capitale economico e culturale, classifica i docenti e la loro distribuzione nelle gerarchie disciplinari, si nota subito come, nelle statistiche, la presenza delle donne riporti percentuali bassissime, talvolta nulle, rispetto a quelle degli uomini (Bourdieu 1984/2013, p. 96). Ancora, quando mostra come i docenti agiscano per conservare e accumulare il capitale sociale e simbolico, per esempio partecipando a commissioni, comitati, anche esterni all’università, riproducendo così le gerarchie universitarie, le donne non appaiono certamente nelle alte sfere. Rispetto a queste statistiche, dove è chiaro che il genere maschile non solo è numericamente preponderante ma anche è esclusivo nei posti del potere accademico, Bourdieu rimane tiepido.
Inoltre, quando descrive le dinamiche della cooptazione che sanzionano il reclutamento come diritto di ingresso nella corporazione degli accademici, Bourdieu fa chiaramente vedere come gli “uomini” siano concepiti come persone nella loro totalità, come habitus, quelle “disposizioni durevoli, costitutive di un ethos, di un hexis corporale, di un modo di esprimersi e di pensare” (ivi, p. 112). Ebbene qui non ritroviamo nessun cenno all’habitus di genere, nessun cenno al principio di omofilia maschile che regola la riproduzione dei gruppi dominanti e le relazioni tra maestro e allievo, pur nelle belle pagine in cui si mette in luce l’accademica “arte” di far attendere e di mantenere l’allievo nella relazione di dipendenza “fondata sull’attesa”, di suscitare “una sottomissione mimetica al maestro” (ivi, p. 152). Nella sua analisi dell’università, Bourdieu non si sofferma, se non molto incidentalmente, sul genere dei docenti, e la donna accademica rimane davvero nell’ombra. Solo successivamente svilupperà il suo approccio alla questione femminile, negli scritti su Il dominio maschile, l’articolo del 1990 e il libro del 1998.
Ma ora, noi cercheremo “di pensare con Bourdieu per andare oltre Bourdieu” e di capire quale posto avrebbero avuto le donne nell’accademia se il nostro sociologo avesse riflettuto, come docente, sui propri “pregiudizi scolastici” o sui “condizionamenti dell’inconscio culturale”. In realtà, lo fa lui stesso, in questi termini, quando, in articolo pubblicato postumo, descrive l’esercizio metodico della riflessività come “un incessante andirivieni tra il momento riflessivo dell’oggettivazione dell’esperienza primaria e il momento attivo dell’investimento di questa esperienza così oggettivata e criticata in atti di oggettivazione più lontani da questa esperienza”, e sostiene che questo “doppio movimento”, che si costruisce “scientificamente”, permette allo “sguardo antropologico” di disvelare le relazioni invisibili e anche il proprio “inconscio culturale” (Bourdieu 2003, pp.52-53).
E così, finalmente, richiamando la riflessività, che ha esercitato nello scrivere Homo academicus, riconosce che l’oggettivazione è stata talmente “fredda” da dimenticare quanto la libido accademica rappresenti una delle “follie della mascolinità” :
“… Ma mi piacerebbe dare rapidamente un altro esempio di andirivieni particolarmente fecondo: avendo scoperto in Virginia Woolf (1929) Al faro, quelle strutture sorrette da miti a cui non avrei fatto caso se non avessi acuito il mio sguardo attraverso la familiarità con la visione cabila - e più generalmente mediterranea - della divisione sessuale del lavoro, sono stato in grado, grazie alla analisi estremamente raffinata che Virginia Woolf sviluppa in quel romanzo, di come il maschile dominante è dominato dalla sua dominazione, che mi ha costretto a andare più nel profondo con il lavoro di riflessività, a scoprire subito dopo i limiti della lucidità di un antropologo che non aveva saputo o potuto ripensare l’antropologia contro se stessa. Ora l’ho fatto, aiutato in particolare dal richiamo, smisuratamente crudele e pure delicato, della libido academica, una forma del tutto particolare manifestata dalle follie della mascolinità, che avrebbe potuto e dovuto figurare in una versione meno freddamente oggettivista di Homo academicus, cioè meno distante dall’oggetto e dal soggetto dell’oggettivazione” (Bourdieu 2003, pp.54-55).
In realtà, nel 1989, intervistato da Wacquant sul suo libro sul campo universitario, Bourdieu ha già dato una definizione della libido academica, al fine di contestualizzare gli open concepts, quali l’habitus e il campo: “C’è una libido academica che è un tipo di desiderio molto specifico o un impulso che nasce dalla relazione tra un certo habitus, socialmente costruito - sappiamo che i figli dei professori, per esempio, hanno, a parità di qualsiasi altra cosa, una propensione alla libido accademica più grande dei figli di un uomo d’affari che, spesso, troveranno grottesche una tale ambizione - e un campo che offre profitti particolari vantaggi. La relazione tra un habitus specifico e un campo specifico, una libido academica, può, in certe condizioni, sublimarsi in una libido scientifica capace anche di produrre scienza” (Wacquant, 1989 pp.19-20)
E’ del tutto coerente che, ponendo all’origine dei giochi sociali l’illusio, l’“interesse al disinteresse”, il “divertimento” pascaliano, l’“incanto” di chi si coinvolge e investe nel gioco, Bourdieu ci racconti di una libido intesa come pulsione dell’individuo a entrare nel campo accademico. Ci dice anche che, in certe condizioni, questa libido academica è in grado di diventare “scientifica”. Tuttavia, solo quando legge di Virginia Woolf il racconto della libido academica come virilità enfatizzata, Bourdieu la riprende nei termini della “metafora dell’avventura intellettuale e del capitale simbolico di celebrità che essa persegue”, e afferma che “l’illusio ludica permette di riprodurre ad un grado più elevato di de-realizzazione quell’illusio academica dell’esistenza quotidiana” (Bourdieu 1998/1998, pp.88-89). Così come quando, pur confessando la difficoltà e talvolta il disagio, intraprende “un lavoro di socio-analisi dell’inconscio androcentrico” (ivi, p.13), si riappropria degli strumenti della conoscenza scientifica e mostra la “verità” delle relazioni strutturali di dominio sessuale. Svela, finalmente, che ciò che mantiene le diverse relazioni sessuali di dominio/sottomissione è una certa “aria di famiglia che unisce e che separa”, è una “linea di demarcazione mistica”, e in questa definizione ritroviamo, ancora una volta, le parole di Virginia Woolf (ivi, p.125).
In realtà, fin all’inizio del suo percorso scientifico, nelle prime ricerche etnologiche, Bourdieu ha analizzato i meccanismi del dominio maschile e ha trattato dell’“esclusione” delle donne dall’arte di dominare, essendo l’uomo ad essere designato attraverso i riti di iniziazione istituzionalizzati, e poi ad essere addestrato. Ancora successivamente, dirà che la donna non è toccata dalla libido dominandi , che è “maschile”, e lo è “sotto qualsiasi forma si presenti”, avendo tutte le forme di dominio a fondamento quell’illusio “costitutiva della mascolinità”. Guarda all’“esclusione” delle donne dal dominio, con lo sguardo simmeliano, dal momento che in questa esclusione vi vede la causa di una sorta di lucidità” . Le donne, quindi, sono ritenute “lucide” perché non sono prese dall’esaltazione ossessiva del sé tutto maschile, perché hanno un “privilegio (tutto negativo) di non essere coinvolte in giochi di potere”, insomma, sono in una posizione di “distanza”, e se spesso partecipano al gioco, lo fanno “per procura, per solidarietà affettiva” (Bourdieu 1990, pp. 21-29).
In Homo academicus Bourdieu parla, anche se molto incidentalmente, sia della lontananza delle donne dai posti di potere, sia delle cause che le portano ad entrare nell’accademia, del fatto che restano “non coinvolte” nei giochi, “meno identificate” con l’istituzione accademica. Infatti, quando riflette sulla crisi del Maggio del ‘68, e sull’incidenza delle trasformazioni dello spazio sociale più ampio sul campo universitario, fa notare come l’aumento di studenti abbia comportato l’aumento dei docenti e quindi un cambiamento nei rapporti di forza fra facoltà e discipline, e anche all’interno rispetto alle posizioni di carriera. Ed è con questo cambiamento morfologico e relazionale che nei livelli inferiori del corpo docente o, come specifica meglio, “nei bacini di reclutamento meno legati al potere accademico e al prestigio intellettuale”, entrano le donne, insieme a coloro che provengono dalla provincia. Le donne accademiche ci sono, allora, ma, come fa notare, appaiono “sotto-rappresentate” nel censimento, perché, secondo la logica dell’indagine, possono non rispondere al questionario a causa di una “minore identificazione con l’istituzione” (Bourdieu 1984/2013, pp.211-212, nota 5).
Qui Bourdieu, assegnando alle donne stesse un minore coinvolgimento istituzionale, sembra avere in mente il processo di socializzazione che le “prepara” all’esclusione, dal momento che quell’illusio, che è designata come virilità e che entra nel rapporto tra habitus e spazio sociale, tende a riprodurre l’azione maschile di “accumulazione di capitale simbolico”, un terreno di giochi accademici da cui le donne sono escluse, proprio perché “preparate all’esclusione” (Bourdieu 1990, p.21). Tuttavia, dell’illusio originaria, quindi, di questo “sentimento” che è una “predisposizione” che diventa il motore “umano” di “azioni virili”, Bourdieu non parla esplicitamente in Homo academicus e non dice che è proprio questa illusio originaria a generare la libido dominandi dell’uomo accademico. Comunque osserverà che se il dominio accademico è messo in pericolo dall’ingresso di donne, si scatenano strategie di difesa e persino una forte “emotività” degli uomini. Lo farà nel 1998, quando, per dimostrare come il dominio maschile tenda a riprodursi attraverso meccanismi di cooptazione che funzionano secondo la logica della sex ratio, si riferirà esplicitamente “al caso del reclutamento dei professori di più basso livello durante quegli anni settanta in cui si doveva far fronte al massiccio afflusso degli studenti”, e dirà:
“Inoltre, anche se non vogliamo certo attribuire agli uomini strategie organizzative di resistenza, possiamo supporre che la logica spontanea delle operazioni di cooptazione – che tende sempre a conservare le proprietà più rare dei corpi sociali, e in primo luogo la sex ratio – affondi le sue radici in un’apprensione confusa, e fortemente pervasa di emotività, rispetto al pericolo che la femminilizzazione fa correre alla rarità e quindi al valore della posizione, e anche in qualche modo, all’identità sessuale dei suoi occupanti” (Bourdieu 1998/1998, p.112-113).
Infatti, anche se è evidente nelle statistiche della ricerca sull’università post-sessantottina che la composizione del corpo docente è cambiata nel senso di una riduzione delle quote di coloro che hanno titoli di studio più apprezzati, in particolare nelle discipline che si situano al più basso livello della gerarchia accademica, per Bourdieu non è questo il punto. Per lui, le strategie accademiche di reclutamento “non mettono in crisi la logica di difesa di corpo tramite titoli formalmente diversi”, ma attraverso l’ampliamento della fascia d’età e, finalmente, con “la femminilizzazione”, che perciò appare legata al rischio di “degrado” del corpo accademico nelle discipline più prestigiose (Bourdieu 1984/2013, pp. 215). Bourdieu ci dice che sono gli uomini a controllare i limiti del campo. Da questo passaggio di Homo academicus, sembra che la “femminilizzazione” sia considerata come uno dei processi di cambiamento nello spazio sociale, pertanto influenti sul campo specifico dell’accademia, e che le donne, come i giovani, facciano parte di quei nuovi “entranti”, che provengono da omologhe classi sociali borghesi, ma che finiscono per mettere in crisi la riproduzione delle precedenti modalità istituzionali.
Le donne sono quelle dotate di capitale “contraddistinto insieme dal genere e dalla classe”, perché Bourdieu, in La distinzione, il libro che secondo Susca è il precedente logico di Il dominio maschile, “non separa” genere e classificazione sociale (Susca 2011, p. 92). La femminilizzazione, allora, “intacca” un campo specifico ma, come una parte del dibattito femminista sostiene (Moi 1991, Reay 2004) , il genere “si disperde” attraverso i vari campi, perché ristruttura lo spazio sociale in generale. Questa prospettiva dell’“ingresso” della femminilizzazione sociale nell’accademia sembra rendere sfumato e meno “specifico” l’habitus delle donne. Sembra, anche, allontanarle da quella esperienza della illusio e della libido academica, che sono sentimenti costitutivi, come Bourdieu stesso dice (Wacquant, 1989 su citato), dell’incontro tra un “habitus specifico” e un “campo specifico”.
Su questa linea il concetto bourdieusiano di habitus “specifico” appare “limitante” perché lascia supporre non tanto “una omogeneità di sviluppo a livello individuale”, quanto “una costrizione di questo sviluppo nei confini di un campo”. Da qui diventa facile ritenere che il concetto di “soggettività”, centrale, invece, nell’epistemologia femminista, o il concetto di “soggettività multipla”, che propone Lahire (1998, 2001), permetta lo studio degli effetti dell’”attraversamento di campi differenti”. Infatti, così, si arriva a sostenere che “le donne non hanno legittimità in un campo professionalizzato”, come appunto quello accademico, perché “il campo corrisponde abbastanza bene ai domini dell’attività professionale/pubblica”, e “alle attività pubbliche di prestigio connotate da capitale simbolico” (Lahire 2001, p. 35), da cui appunto le donne rimangono “escluse”.
In effetti, Bourdieu non si pone la questione se le donne attraversano diversi campi, se il loro habitus si specifica in relazione a esperienze plurali. E nemmeno studia le donne come protagoniste di negoziazioni e di lotte femminili (King 2000, p. 426). Le donne, le rileva “distinte” nelle classificazioni sociali, e con desideri di emancipazione che rispecchiano le auto-rappresentazioni d’élite, con aspirazioni di mobilità sociale e professionale che prefigurano “l’anticipazione pratica di obiettivi limitati, essendo le aspirazioni un elemento inserito all’interno di un habitus di classe e di genere” (Bourdieu 1979/2001, p. 471). Le inserisce in configurazioni relazionali e meccanismi del dominio simbolico e ritiene, comunque, possibile che la conoscenza scientifica degli effetti di questi meccanismi le porti obbligatoriamente “a scoprire che non possono arrivare ad una loro liberazione se non attraverso un sovvertimento delle strutture fondamentali dei campi dove si producono e si scambiano beni simbolici” (Bourdieu 1998/1998, p. 29).
Per questo modo di trattare le donne, c’è chi sostiene che lo sguardo di Bourdieu non è viziato da “androcentrismo”, ma è “lo sguardo irrispettoso di studioso e di uomo che si rifiuta di innalzare a tabù la questione femminile” (Susca 2011 p. 92).