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Gli scrittori italiani tra campo letterario e campo cinematografico
Recensione di Fabio Andreazza, Identificazione di un’arte. Scrittori e cinema nel primo Novecento italiano, Roma, Bulzoni, 2009, 208 p.
martedì 1 maggio 2012,
Michele Sisto
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Sono opere d’arte, i videogames? Oggi pochi risponderebbero di sì; i più troverebbero inopportuno perfino chiederselo, e nel migliore dei casi avanzerebbero riserve e distinguo. È probabile che un giorno leggeremo storie di questa ennesima arte nelle quali Pacman avrà il posto che nei volumi di Gian Piero Brunetta ha La sortie des ouvriers de l’usine Lumière, ma oggi il suo status è ancora incerto. Lo stesso accadeva al cinematografo all’inizio del XX secolo: a lungo, dopo il battesimo parigino del 1895, è considerato un mezzo di intrattenimento, volgare e asservito all’industria, e il suo posto è nelle fiere, accanto al benjaminiano Kaiserpanorama, al baraccone del tiro al bersaglio e al casotto dell’indovina. Perché il cinema venga “identificato” come arte saranno necessari – parallelamente alla febbrile attività interna al campo cinematografico in via di costituzione ad opera di registi, cineasti, produttori, riviste specializzate, associazioni di cinefili, festival e premi – almeno tre decenni di trasfusioni di capitale simbolico dall’esterno, da campi dotati di più consolidata autonomia e legittimità, come quello teatrale, musicale o delle arti figurative, nonché dallo Stato e dalle sue istituzioni.
Il volume di Fabio Andreazza ricostruisce il ruolo che in questo processo hanno avuto gli scrittori, un gruppo sociale che all’inizio del Novecento detiene una sorta di monopolio sul discorso estetico. Di qui la particolare rilevanza delle loro prese di posizione, che fin dall’inizio si collocano tra i due estremi del favore disinvoltamente manifestato dal «taumaturgo» D’Annunzio e dell’aperta ostilità di Croce, il quale si degnerà di dir bene del cinema soltanto nel 1948, a giochi ormai fatti. Fino a tutti gli anni Dieci, del resto, la sua diffidenza è largamente maggioritaria: gli entusiasti del cinema sono pochi giovani esponenti di avanguardie letterarie interessate a rompere col passato – lo scalpitante Papini, i cerebristi Gina e Corra, Anton Giulio Bragaglia e soprattutto Marinetti e i futuristi –, mentre personaggi influenti e tra loro diversissimi come Verga, Pirandello, Prezzolini, Gobetti e Gramsci sono unanimemente guardinghi.
Le cose cambiano intorno al 1926, con l’affermarsi di una nuova generazione di letterati (che solo in parte coincide con una nuova generazione anagrafica) disponibile per formazione e per interessi specifici a investire nelle potenzialità artistiche del nuovo mezzo: i più noti sono senz’altro Massimo Bontempelli (che ne scrive su «900»), Giacomo Debenedetti (su «Solaria»), Luigi Pirandello, del quale è ricostruita la «lenta conversione» dalla contrarietà espressa in Si gira… all’entusiasmo per una possibile collaborazione con Murnau a un film tratto da Sei personaggi in cerca d’autore, o Emilio Cecchi, la cui nomina a direttore artistico della Cines nel 1932 segna il punto d’arrivo dell’indagine.
In rapidi, densi paragrafi, in cui si fa un uso accorto e privo di gergalismi dello strumentario sociologico di Pierre Bourdieu, il volume ripercorre le successive tappe di questo mutamento di paradigma senza mai ridurre a formule schematiche quello è che un complesso, e tutt’altro che teleologico, concorso di attori e di fattori. Vi trovano dunque spazio numerose figure di letterati che, proprio per aver investito sulle incerte potenzialità della nuova arte, non hanno seguito la carriera tipicamente letteraria (quella che garantisce un posto nei manuali di storia della letteratura), svolgendo tuttavia un fondamentale ruolo di mediazione. Ad esempio il fondatore della rivista «Il Convegno», Enzo Ferrieri, che tra le molte novità importate dalla Francia e dalle altre capitali della cultura europea introduce in Italia il primo cineclub; o Guglielmo Alberti, il primo a riconoscere in Charles Chaplin un “autore” di statura pari a un letterato; o Antonello Gerbi, tra i più abili a mobilitare l’allora dominante estetica crociana al fine di «giustificare il cinema come arte».
La storia della legittimazione del cinema come arte si intreccia così con quella dell’autonomizzazione del campo letterario, di cui il volume costituisce, seppure da una prospettiva laterale, una delle prime messe a fuoco. Con pochissime eccezioni infatti – tra cui il saggio di Anna Boschetti La genesi delle poetiche e dei canoni. Esempi italiani (1945-1970) apparso in «Allegoria», n. 55, 2007, a cui l’autore opportunamente rinvia – questo tipo di indagine da noi è appena agli inizi, mentre in Francia e in Germania produce da almeno un decennio risultati tali da rendere pensabile una riscrittura della storia letteraria, finalmente svincolata dalle narrazioni nazionali e che ponga in primo piano le relazioni: tra scrittori, tra le arti, tra diversi paesi. Di quest’impresa, realizzabile solo a patto che una nuova generazione di studiosi vi investa risolutamente, Identificazione di un’arte potrebbe essere ricordato come uno dei primi passi.
Da: "L’Indice dei libri del mese", 27 (2010), n. 5.